domenica 1 marzo 2009

» Capitolo VII (a)

Durante il tragitto in macchina fino alla fondazione Beren, Matteo cercò di concentrarsi sui dettagli mancanti. Il mosaico non era ancora completo. Chi era la ragazza bionda e soprattutto che ruolo aveva nella faccenda? Gli tornò in mente un particolare che fino ad allora aveva trascurato. Dalla camera nella pensione dov’era stato nascosto Robert mancavano i suoi effetti personali. Ma chi li aveva portati via, e quando? Il video della sorveglianza aveva registrato le immagini della ragazza che trascinava via il tedesco, ma non c’era traccia della valigia di Robert. Guardò fuori dal finestrino la vegetazione che scorreva veloce, confondendosi in una macchia indistinta di colore verdastro. Nubi grigie, dalle forme minacciose, appesantivano il cielo. Chiamò la centrale e chiese al tenente MacRyan di mandare subito quelli della scientifica nella stanza dalla quale era stato portato via il tedesco “E dica ai tecnici di riesaminare quel nastro, credo che ne siano state tagliate alcune parti”.
Dopo un saluto frettoloso interruppe la comunicazione.
Il sangue di Robert conteneva il segreto della cura. Quindi a Robert non sarebbe stato torto un capello, fino a quando gli scienziati non fossero riusciti a riprodurla. Aveva iniziato ad affezionarsi a quel ragazzo impulsivo e sanguigno. Il suono del cellulare lo riportò alla realtà.
Era l’agente di turno al centralino.
“C’è una ragazza che la cerca, dice che è importante. Dice di chiamarsi Jane”
“Passamela immediatamente”.
Gli istanti che seguirono sembrarono eterni. Una sensazione simile alla paura serrò lo stomaco dell’agente della Gendarmeria Vaticana. Trattenne il respiro. La voce di Jane, concitata ma euforica, lo tranquillizzò subito. “Ciao, avevo bisogno di parlarti: ci sono novità di cui ho ritenuto opportuno renderti informato”. “Ciao Jane. Dimmi tutto. Sei a Edimburgo?”
“Si, si, non preoccuparti, sto benissimo”.
“Parla, ti ascolto”.
“Quando sono tornata a casa, Maria, la mia compagna d’appartamento, mi ha consegnato una busta. Era una convocazione presso lo studio notarile del dottor Bride.
Sono corsa lì e mi hanno consegnato una cassetta VHS. Non puoi nemmeno immaginare cos’era”.
“Jane, così mi farai impazzire”.
“Ok, vengo al dunque”. Matteo era incuriosito. “La cassetta era di Anne e Thomas”.
“Cosa? Ne sei sicura” “Senti, lasciami finire. Ok?”. “Scusami”. “La cassetta, dicevo, era dei Redmought. Era stata affidata al notaio Bride nel caso in cui le cose si fossero messe male, con l’ordine di darmela personalmente. Molti degli indizi che Anne e Thomas avevano lasciato in giro erano soltanto delle false piste. La cassetta, invece, spiega tutto.” “Gli omicidi?”. “Si. E anche la formula”. Jane fece una pausa, conscia del potere che in quel momento esercitava sul suo interlocutore. Sapeva che Matteo era con l’orecchio incollato al ricevitore. Lo immaginava serio, con i nervi tesi allo spasimo e quell’aria accigliata che faceva di lui una persona misteriosa e affascinante. Ma era pur sempre un prete, meglio non farsi dei film. La spiegazione che seguì, lasciò Matteo annichilito. Non c’era niente di sovrannaturale in quello che ascoltò. O quasi. Anne e Thomas più di trent’anni prima avevano trascorso una lunga vacanza in Africa con i genitori di Robert e il bimbo di appena due anni.
Durante un safari fotografico la loro jeep aveva avuto un guasto e avevano trovato asilo in un villaggio. Intorno a loro si era creato subito un ambiente amichevole ed erano riusciti a vincere con facilità la ritrosia degli indigeni grazie all’ottima conoscenza che Beatrix, la madre di Robert, aveva del loro idioma. Pochi giorni dopo il loro arrivo, era accaduto un fatto strano. Un bambino, tenuto in isolamento perché colpito dalla piaga del Burulì, aveva iniziato a guarire. Le sue cellule si stavano rigenerando. Per giorni l’inspiegabile guarigione era rimasta avvolta nel mistero. Poi, una notte, svegliandosi all’improvviso, Beatrix si era accorta che dalla tenda mancava Robert. Il terrore l’aveva fatta impazzire. Aveva svegliato il marito e, insieme agli indigeni, svegliati dalle grida, avevano perlustrato il villaggio. L’avevano cercato dappertutto e Beatrix era impallidita quando l’aveva visto uscire dalla capanna dove era tenuto in isolamento Hugo. Da quelle poche parole che i due bimbi erano riusciti a mettere insieme all’intuizione della verità ci era voluto un bel po’. Robert, la sera, aveva preso l’abitudine di uscire fuori dalla capanna che li ospitava e di intrufolarsi in quella di Hugo. Vedendo il bambino solo e malato, si era impietosito ed era tornato a trovarlo ogni notte. Ed in una di quelle occasioni era avvenuto il miracolo.
Robert aveva avuto una piccola emorragia dal naso, dovuta con tutta probabilità ad una eccessiva fragilità dei capillari. Hugo, che era di qualche anno più grande di lui, aveva provato a fermare il sangue che usciva in abbondanza dalle narici dell’amico, sporcandosi le mani coperte di piaghe. Dalla mattina dopo, aveva iniziato ad avvertire sulle mani uno strano formicolio. Poi la pelle aveva iniziato a rigenerarsi e le piaghe a sparire.
Tornati in Germania, i genitori di Robert e i Redmought avevano iniziato a cercare una spiegazione scientifica per quanto era accaduto. Si erano rivolti a Von Brauser, uno scienziato amico di Beatrix, che si unì al gruppo e mise a disposizione le risorse necessarie. Dopo anni di ricerche e di esperimenti, avevano scoperto che la chiave era nelle cellule staminali di Robert. Prelevando alcune cellule dallo strato basale e mettendole in coltura con un adeguato reagente, avevano ottenuto delle cellule straordinarie, adatte a qualsiasi innesto eterogeneo. Ma c’era di più. Le cellule si rigeneravano con una rapidità incredibile. Una volta innestate, inoltre, erano tollerate senza che fosse necessario provvedere ad una terapia immunosoppressiva per evitare il rigetto.
“Ci siamo”. La voce dell’agente lo riportò al presente.
Scese velocemente dalla macchina. Sul posto erano già arrivate le squadre speciali del colonnello Huster. Scambiò un rapido cenno di saluto con l’ufficiale.
“Siamo pronti per l’incursione”.
“Procediamo”.
L’irruzione avvenne rapidamente. L’effetto sorpresa era di fondamentale importanza. Matteo ebbe appena il tempo di indossare una maschera antigas e un giubbino antiproiettile. Ci fu un conflitto a fuoco con gli uomini di Beren messi a guardia del perimetro intorno all’edificio, ben addestrati ma meno numerosi di quelli del colonnello Hauser. Gli agenti delle forze speciali se ne sbarazzarono quasi subito. Poi si precipitarono nell’immensa struttura a forma di parallelepipedo che si stagliava minacciosa di fronte a loro. Ci fu un’altra sparatoria, anche questa di breve durata. Poi il campo fu sgombrato dai mercenari di Beren e gli uomini di Hauser si impadronirono dell’intera struttura.
“Colonnello, venga, c’è qualcosa che deve assolutamente vedere”.
Il capitano Fredmann e cinque uomini armati precedettero Matteo e il colonnello, guidandoli attraverso un corridoio stretto e lungo. Lo scenario era cambiato. Quell’ala della struttura, modernissima e di recente costruzione, era paragonabile più ad una clinica specializzata che alla sede di un’organizzazione di beneficenza. L’ambiente, asettico e illuminato con fari azzurrognoli, era decisamente sinistro. Il gruppo giunse in una stanza che aveva tutta l’aria di essere un laboratorio. All’interno c’erano sei persone in camice bianco, un uomo anziano che aveva l’aria del capo. Sulla destra, accasciato su di una lettiga c’era Robert, pallido ma incolume. Ammanettata, in piedi accanto a due agenti del reparto speciale, la ragazza con il piercing. Il suo viso era una maschera di rabbia.
Matteo si precipitò dall’amico. I due si abbracciarono in silenzio.
“Dubitavo che ti avrei rivisto”, disse il giovane tedesco.
“Io, invece, ne ero sicuro”, mentì l’Agente della Gendarmeria Vaticana. “E devo farti i complimenti per aver avuto la prontezza di riflessi di lasciar cadere il biglietto da visita della Fondazione. Ci hai messi sulla strada giusta”. “In realtà, non sapevo bene cosa fosse”, rispose Robert. “Ho visto che cadeva dalla sua tasca”, e fece un cenno rivolto alla ragazza, “l’ho raccolto approfittando di un attimo di distrazione e l’ho lasciato nella stanza”.
“Siete stati davvero in gamba”, disse l’uomo con i capelli bianchi.
“La ringrazio del complimento, dottore. O dovrei dire Professor Von Brauser?”.
Nella stanza calò il silenzio. Matteo spiegò quello che Jane gli aveva riferito.
“Maledetti, avete rovinato tutto”, gemette la ragazza bionda. “Non ci aspettavamo di essere scoperti. Avete mandato in aria un piano da cento milioni di euro”.
Von Brauser, in un disperato tentativo di fuga, cercò di disarmare l’agente che lo teneva per un braccio. Quello non ci pensò due volte a sferrargli un colpo alla nuca con il calcio del fucile. Il vecchio stramazzò al suolo.
“Papà”, gridò la bionda tentando di raggiungerlo. Due agenti la bloccarono.
I presenti si guardarono tra loro.
“Meredith?”, chiese Robert, sorpreso e ancora intontito dalle porcherie che avevano continuato a iniettargli.
“E’ passato tanto di quel tempo che non sarei mai stato in grado di riconoscerti”.
Matteo insistette per accompagnare Robert in ospedale, ma il ragazzo si oppose con forza. “Ci andrò dopo, ora preferisco venire in centrale”.
Una volta raggiunta la loro destinazione, Matteo fu raggiunto da MacRyan.
“Avevi visto giusto, il nastro era stato manomesso. Nella registrazione integrale si vedono due uomini che prelevano la valigia dell’ostaggio e gli altri effetti personali. Avevano una talpa in centrale. Ma abbiamo risolto il problema”.
“Bene. Conoscendo i tuoi metodi, preferirei che tu mi risparmiassi i dettagli. C’è altro?”.
“Si. Ho parlato con il medico legale. Avevo chiesto al magistrato di disporre un supplemento di autopsia sull’agente trovato morto nella pensione e sull’agente sotto copertura. Hanno trovato tracce di un veleno rarissimo, ricavato da un insetto originario dell’Africa”.
Anche questo mistero è stato chiarito, pensò Matteo.
Non restava da spiegare che la morte di Thomas. L’anziano che l’aveva soffocato si era tolta la vita dopo poche ore. Forse si era trattato semplicemente del gesto di un folle. Forse.


(Autore: Barbara Gennaccari)

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